venerdì 13 ottobre 2023





Un po' ciò che temevo è accaduto. 

Niente PICC. 

Capelli in ricrescita. 

Di cosa ti lamenti?

Infatti non mi lamento. 

Mi hanno trovato la nuova terapia (non è la metronomica ma gli inibitori PARP che vanno a lavorare sulle mutazione i genetiche patologiche del mio DNA) quindi ... di che lamentarsi?

Non lo dico in tono ironico. Sono veramente grata di tutto.

Eppure sono stanca.

Ma si sa. Ormai sembro un disco rotto.

Eppure ieri sera mentre portavo fuori il cane mi è parso possibile ricominciare tutto. Un'altra vita mi è sembrata lì a portata di mano.

Un cambiamento più o meno drastico. un cambio di rotta.

La serenità mi è sembrata accessibile. La bellezza possibile. La vita qualcosa di amabile. 

Sembra assurdo ma per me nulla di tutto ciò è scontato. 

Passeggiavo con Iyashi, la musica dei locali era gradevole ed evocativa di un periodo della mia esistenza (vero, immaginato, desiderato, sognato?) in cui tutto mi sembrava possibile e bello.

Avrei voluto sedermi in uno di quei tavolini all'aperto, in mezzo ad altre persone sconosciute, a sorseggiare uno spritz e a guardare il tramonto ed il cielo che si tingeva di rosa arancio e violetto senza pensare al dopo. Senza preoccuparmi di nulla. Soltanto io e il mio cane, vicini. Tra il chiacchiericcio degli altri. La musica, l'aroma di pizza misto a quello più forte del cordame umido e al carburante delle barche.

Ma non l'ho fatto e non saprei dire il perché. Mi sembra di non potermelo permettere, un po' come mi sembra di non meritare di esser amata (a parte dalla mia famiglia). 

Io amerei un persona come me?

Amare non credo.

La sosterrei, penso di sì per pura solidarietà umana ma non credo che la frequenterei. 

Troppo falsa. Io lo so. Sorride anche quando non vorrebbe farlo. Parla per colmare il silenzio di cui ha paura. E' gentile soltanto perché non vuole e essere tacciata per maleducata. E' premurosa nell'esaudire i desideri altrui unicamente perché non vuole grane...

La sua esistenza è un misto di finzione.

In realtà lei vuole stare sola. Non parlare se non quando ne ha proprio voglia. Vorrebbe passare dritta senza fermarsi a fare necessariamente una battuta o un sorriso. Molte volte non vorrebbe neppure salutare.

Io la conosco non è una bella persona.

E' anche invidiosa. Tutte sono meglio di lei e ne soffre. Si vede brutta (insignificante è
più corretto), grassoccia e fallita da un punto di vista lavorativo. Ma mica lo dà a vedere? Figuriamoci. 

Chi vorrebbe stare con una così?

Io ci convivo da 49 anni. 

Eppure ieri sera mi è sembrato che qualcosa potesse cambiare.


martedì 15 agosto 2023

Il mio messaggio nella bottiglia

Venerdì mi levano via l'ultimo baluardo visibile dietro al quale potevo trincerarmi agli occhi dei più per manifestare, senza le parole, la mia condizione di malata.

Senza questo, ossia il mio PICC, sono ormai senza difese


Un po come la bulimica rispetto all'anoressica: nessuno si accorge che è malata e i pochi  che lo sanno non ci credono perché non appare come una persona sul punto di morire... ma anzi, spesso, è anche rotondetta.

Anche la malattia deve apparire. Deve vedersi. Altrimenti stai bene. 

Prima è stata la perdita dei capelli dovuta al Taxolo. Ma con la nuova chemioterapia, il Caelyx (peraltro anche più forte), l'alopecia non era più uno degli effetti collaterali. Mi restava però il PICC, coperto dalla mia fascetta nera... ma sempre visibile.

Adesso con la nuova chemio che inizierò a breve, la c.d. metronomica che consiste in un mix di farmaci per bocca da assumere quotidianamente, non avrò più bisogno neanche del PICC. 

E il PICC è un qualcosa di impattante. A volte mi basta soltanto abbassare un pò la mia fascetta e vedo visi voltarsi altrove frasi del tipo "mammamia, copri copri!". 

Ma a me non da fastidio; davvero, neppure un po'. Il PICC non fa assolutamente male e mi dimentico anche di averlo. 

Ma si vede e mi da un certo status. Le analisi epatiche e renali che dovrò necessariamente fare in più a causa di questa nuova terapia non si vedono. Non le puoi esibire. Lo so soltanto io e i pochi al corrente... (alcuni dei quali se ne dimenticano molto velocemente).

Quindi cosa resterà di visibile della mia condizione?

Nulla. 

Ed ho paura... perché io tendo sempre a minimizzare ciò che mi sta accadendo perché non voglio che le persone si preoccupino però, al tempo stesso, come più volte ho scritto, questa condizione di malata mi protegge dal mondo, dalla vita "normale", dalle "persone" e dalla quotidianità.

Nessuno crederà più alla mia stanchezza o al mio dolore quando lo "utilizzerò" per rinchiudermi in me stessa: in fin dei conti starò semplicemente assumendo delle pastiglie...

L'ago e la flebo fanno più impressione.

Eh, già.

Ma non sarò troppo allegra?

A volte mi capita di rileggermi e mi dico: ma come fa il mondo a sopportami ancora?

Basta non darlo troppo a vedere... e scaricare tutto il peggio di me in questo blog che, peraltro, ha perso anche la sua vera mission, ossia sollevare e alleviare il dolore infornando pasticcini. Mi chiedo perchè lo tengo ancora pubblico. E' diventato più un angolino buio della mia vita. Un piccolo ecocentro dove gettare tutti i rifiuti che mi tengo dentro.


Il fatto è che chiudere questo blog è un po' come se chiudessi definitivamente il mio unico e sottile filo che mi collega ancora in modo onesto e vero col mondo esterno. la porta socchiusa che qualcuno potrebbe spingere per vedere chi c'è dietro veramente.

E' il mio messaggio nella bottiglia lanciato in mare con la speranza che prima o poi una persona lo raccolga e mi salvi.



 






Ma consentirei mai a qualcuno di guardarmi realmente oltre quella porta? autorizzerei mai qualcuno a tirare il filo e di arrivare alla vera me? Mi lascerei salvare?

Credo proprio di no. 

Ecco, in questo istante mi è arrivato un messaggio su whatsapp: una vecchia conoscenza qui in vacanza vorrebbe incontrami... e mi chiede dove e quando.

Ho già il panico. E non risponderò.  Lo lascerò non visualizzato per giorni e giorni, sino almeno agli inizi del prossimo mese, ossia sino a quando spero che il pericolo sia passato e che la persona in questione sia rientrata dalle ferie estive.

E mi scuserò. Mi nasconderò dietro la mia stanchezza e i miei impegni che, sì certo, sono veri, ma non mi impedirebbero, se lo volessi davvero, di uscire e trovare il tempo per un caffè. Ma non voglio.

Non voglio vedere e, soprattutto, farmi vedere e parlare con alcuno.

Il senso di colpa mi divorerà per qualche giorno. Avrò il terrore di incontrare questa persona e, pertanto, eviterò come la peste quei luoghi che penso possano essere comuni. Non sarà difficile visto che non esco mai (se non la mattina prestissimo col cane e poi a fare la spesa) ma avrò timore ed ansia perché non voglio che quella persona pensi che non la voglio vedere.

Non c'è nulla in quella persona, e in tutte le altre mille persone, che non va.

Il problema sono io.

Ma non ho voglia di sforzarmi.

Faccio per quasi tutto il giorno cose che non vorrei fare ma che sono indefettibili. O almeno io le vivo come un diktat interno che se disatteso mi porta soltanto angoscia e smarrimento.

Mi resta però il lusso di decidere chi vedere. 

E la mia ansia sociale mi impone di restare dietro al vetro della finestra a guardare gli altri vivere.

Il poeta W. Stevens scrisse "non è sempre facile distinguere tra pensare e guardare fuori dalla finestra".





Io spero che prima o poi tutto passi. Quale che sia il modo. Purché passi.





martedì 18 luglio 2023

Il vicolo cieco

Ho concluso il check di luglio: esami vari, aghi aspirati, MOC, RM, TAC, ECO...

Tutto bene. 

Cacchio.

Sì, sì, non ho scritto male. Ho scritto proprio "TUTTO BENE: CACCHIO".

Ho paura di stare bene. Ho paura di guarire. Lo so che in realtà non guarirò mai... (perché dal IV stadio, dalle metastasi, non si guarisce) ma anche il pensiero, la prospettiva di "stare meglio" a lungo, senza la copertina di Linus della mia malattia, mi crea un'ansia che, assurdo da dirsi, mi ha scombussolata per tutta la settimana appena trascorsa. 

Come reagisco io all'ansia: mangio. E' una settimana che ho una fame quasi atavica e butto giù tutto ciò che mi sono proibita da un po' di tempo a questa parte, nel tentativo di riappacificarmi almeno con il mio aspetto fisico (visto che con quello mentale proprio non mi riesce).

Molti anni fa una ragazza - che adesso non c'è più- mi disse che io "continuavo a nascondermi dietro la mia malattia". Ci rimasi malissimo. Ancora mi brucia quella frase. Perché era vera.

Al tempo, ovviamente, si riferiva al mio primo tumore. Il linfoma del 1990 che ha fatto da primo spartiacque nella mia vita. Avevo 16 anni da compiere Ma si può dire che non li abbia mai compiuti veramente. 

Sono passata dai 15 ai 25 anni (anno della mia Laurea) tutto in colpo. La mia adolescenza è stata strana. Compressa. A singhiozzi. Atipica. 

La mia vita si scandisce come le ere geologiche. 

La nascita nel 1974. Il linfoma N.H. nel 1990. La laurea nel 1999. L'incontro con mio marito nel 2001. Il secondo tumore nel 2015.

La nascita dei miei figli, seppure fondamentale (direi essenziale) nella mia esistenza, non ha segnato una tappa: loro si sono inseriti nell'era "matrimonio" che inizia da prima della celebrazione vera e propria. Inizia con l'incontro con mio marito. Ho avuto 27 anni per tanto tempo. Sino al 2015, anno della diagnosi del tumore al seno (in cui in realtà ne avevo 41 appena compiuti).

Adesso mi trovo ancora in quella era. Il tumore al seno è stato il mio secondo grande pitstop. Da lì, a cascata sino ad oggi, si sono succedute scelte importanti come quella di lasciare la professione da avvocato e intraprendere quella attuale che, inizialmente, esercitavo in modo completo ma che, dopo le metastasi ossee, ho dovuto in buona parte (la parte fisica) delegare per evitare la minaccia (tutt'altro che velata) da parte dei medici di ritrovarmi con il busto vita natural durante.

Ora, una che ha vissuto così -cioè che ha scandito la propria vita con la malattia-, che ha modellato la priora esistenza sulla malattia, adeguandosi ad essa, adagiandosi su di essa, riparandosi con essa, proteggendosi con essa, nascondendosi dietro di essa... come può non esser terrorizzata all'idea di non stare più male?

Di non poter più dire "non posso perché devo fare la terapia, non posso perché sono stanca, non posso perché sto male..."? Di dover prendere la propria vita in mano, uscire. Essere come gli altri. Lavorare come gli altri. Stancarsi come gli altri. Sbagliare come gli altri. Mangiare come gli altri. Arrangiarsi come gli altri senza sempre qualcuno che ti tende la mano perché sei malata.

VIVERE come gli altri?

Non ho più scuse. Dovrei uscire dal mio guscio. Dalla campana di vetro in cui vivo dal 1990.

Ecco, questo mi fa tanta paura.


Se a questo si aggiunge che non ho voglia di "vivere" nel vero senso della parola... ne viene fuori una sensazione di "VICOLO CIECO" che mi scatena attacchi di fame incontenibili.

Se ci rifletto, probabilmente io non ho desiderio di vivere perché penso che la vita sia questo. Una serie di doveri e di obblighi da cui è impossibile scappare. Una serie di "sì" ai quali non potrei più sottrarmi perché non potrei più accampare scuse, vere o presunte.

Molto meglio essere malati. 

Soprattutto malati come fortunatamente sono sempre stata io: che sì, ho sofferto, ma la sofferenza fisica si affronta. Si stringono i denti. Dura un po' ma poi passa (almeno la mia... perché ci sono persone il cui dolore fisico non passa così velocemente).

Mentre una vita di "sì" non voluti, di preoccupazioni lavorative, di fallimenti, di delusioni nelle relazioni personali, di litigi con tutti gli strascichi che immagino essi comportino, di sudore e di fatica, di difficoltà quotidiane... tutto questo non passa velocemente stringendo i denti. Non si attenua impugnando forte il lembo di un lenzuolo in un letto di ospedale o stritolando la mano del medico che ti tiene ferma mentre ti prelevano il midollo o ingoiando in silenzio le lacrime mentre ci si vede per la prima volta in uno specchio dopo la mastectomia. Questi "dolori"durano un certo tempo che, poi, termina. Li gestisci tu. Sei tu che dici "basta". Sei tu che sai quanto stai soffrendo e sei tu che puoi modulare la tua reazione.

Di vivere non si termina sino a che la mela non cade dall'albero definitivamente.

Ed io non sono pronta.

domenica 9 luglio 2023

Una gabbia dorata

Una gabbia dorata. 

Non ho nulla che mi manca (oggettivamente parlando). Ma non sono felice. 

Potrei trascorrere ore a cercare di capire il perché e a buttar giù parole su parole per descrivere ciò che sento ma sarebbe tempo e spazio sprecato perché non mi farebbe star meglio e non servirebbe a nessuno leggere (ammesso che qualcuno mi legga) i lamenti e le lagne di una quasi cinquantenne che si guarda indietro e, facendo un bilancio, vede poco e nulla.

Una vita vissuta per andare avanti. Ecco ciò che vedo. 

Nessun vero entusiasmo. 

Nessuna ambizione. 

Nessun gesto eclatante. 

Nessun amore o emozione travolgente (fatta eccezione per la nascita dei miei figli: quel momento rimarrà sempre impresso nei miei occhi. Il loro sguardo indagatore che incrocia il mio e l'amore che esplode dentro di me).

Galleggio.

Vi è mai capitato di voler resettare tutto e ricominciare? A me di resettare sì, di ricominciare... insomma. Troppa fatica, forse. E poi temo che farei esattamente le stesse cose perché sono proprio così. E poi avrei sempre il mio BRCA2 modificato che mi porterebbe la stessa malattia e quindi ricadrei in questo loop di ospedali, visite, terapie e sorrisi forzati che già conosco bene e che mi hanno condotto qui, esattamente dove sono adesso. Precisamente: seduta davanti al mio Mac a digitare parole inutili e ripetitive. A lagnarmi di tutto invece di prendere la mia vita in mano e darle una svolta.

E quando dico svolta non mi riferisco a farmi bionda. O a mollare tutto e tutti e scappare in Australia... (neppure mi piace l'Australia). 

Penso ad un cambiamento che stravolga il mio approccio al quotidiano e al mio relazionarmi col prossimo.

Non si può vivere sperando o attendendo che siano gli altri a cambiare.



mercoledì 14 giugno 2023

La quadratura del cerchio è una bazzecola a confronto

Cacchio sono trascorsi due mesi dall'ultima volta che ho scritto. Anche oggi come allora sono in procinto di fare la chemio ed ora come allora questo è e resta l'ultimo dei miei pensieri.

Piove da stamattina e questo è un bene per me: mi piace sentire il rumore della pioggia e la sensazione salubre che mi da il profumo di asfalto e di terra bagnati. 

Ma come ogni buon cane che si mangia la coda (o forse sarebbe più confacente "uccello in gabbia muore dalla rabbia, uccello fuori muore dai dolori"?) la pioggia mi immalinconisce. Dolcemente, ma sempre di malinconia si tratta.

Il problema in realtà è la stanchezza: come flash a volte mi tornano in mente momenti della mia vita passata (parlo di una ventina di anni fa) in cui avevo energie da vendere. Voglia di fare, di girare, di rigirare... e adesso faccio fatica quando scendo dall'auto ed entro in casa. Mi devo sedere sulla sedia e riprendermi. Mi sento spossata.

Vorrei fare ma... non ce la faccio. Sino a qualche anno fa ero un treno. Pulivo casa mia, le case che affitto e riuscivo anche ad allenarmi tutti i giorni, a fare le commissioni, a fare i dolci, a pensare alle cose dei ragazzi e del marito... tutto nella stessa giornata!

Adesso mi stanco subito. Proprio mi devo sedere come se non ne avessi più per andare avanti. Poi mi riprendo, ma intanto passa il tempo.

Sarà la terapia. O sarà la mia testa che più vado avanti e meno ho voglia di ... andare avanti?

Immagino entrambe, senza neppure scervellarmi per capire quale venga prima e quale dopo.

Tra l'altro che senso avrebbe? Tanto dell'una non posso fare a meno e la seconda me la trascino dietro nonostante tutti gli sforzi di trovare la quadra di un cerchio che non ne vuole proprio sapere.

Già, sono stanca. Adesso per esempio ho gli occhi pesanti ma non dormirei: sono le 17.14. E' un orario normale per avere sonno? No. E' che non vedo l'ora che arrivi l'ora di cena, per mangiare (pensiero ossessivo) e per andare a dormire. Far terminare un'altra giornata. E dire "anche questa è andata. Avanti la prossima".

Mi sento sola. Ma non ho realmente desiderio, ne voglia di vedere ne di stare con alcuno. 

Vorrei che le mie giornate fossero di 14 ore. Otto le passerei a dormire. Poi mi alzerei a portare fuori il cane, la mattina presto. Rientro: caffè e riordino casa, veloce. Subito dopo vorrei che fosse già l'ora di pranzo (in tutto dovremmo essere arrivati a 11 ore). Poi riposino con libro. Alzarmi, cenare e tornare a dormire. Forse 14 ore son anche troppe.

Depressa? 

Non lo so. Non credo... 

E' vero che tutte le cose che faccio, le faccio più per impegnare il tempo e non lasciare che rischiosi vuoti mi risucchino... o per cercare di far stare sereno chi mi circonda (e qui mi riferisco ai viaggi, allo shopping, alla cucina...).

Io non ho dei veri e propri desideri per me.

I miei sono più desideri riflessi. Desidero che tutti siano soddisfatti e vorrei essere capace di far fronte ai desideri di tutti e realizzarli sempre. Ed è qui che la stanchezza sta diventando un ostacolo insormontabile. Prima almeno ce la facevo: non mi andava di fare certe cose perché il desiderio non era il mio ma la tranquillità di vedere la persona serena mi ripagava e così lo facevo. Adesso non ci riesco più, o comunque non più come prima e questo mi abbatte parecchio. 

Che casino.

La quadratura del cerchio a confronto è una bazzecola.

Meno male che ho questo piccolo spazio tutto mio. E' una consolazione immensa.


sabato 15 aprile 2023

Roba da pazzi


La settimana prossima ho la chemioterapia. Non ne ho voglia ma alla fine me ne potrò stare un paio d'ore piene in santa pace con persone attorno che si prendono cura di me. 

Peccato che non potrò staccare il cervello perché con questa chemio non mi imbottiscono più di antistaminici e quindi resto vigile per tutta la durata dell'infusione. Mi sarebbe piaciuto perdere i sensi per un po'... non però l'effetto ameba per tutta la giornata. Pertanto va bene anche questo. 

Soltanto che non posso godermela sino in fondo... 

Perché i pensieri continuano a frullare. Come adesso.

Vorrei sistemare tutto. Incellofanare tutti e metterli in qualche posto al sicuro. Fa impressione, lo so: forse è più carina la metafora della campana di vetro.

Ma il risultato non cambia.

In questo momento a impegnare i miei pensieri giorno notte pomeriggio mattina ... SEMPRE, è il "grande". Vorrei poter entrare nella sua testa ricciuta e vedere, per poi forse capire, cosa gli passa per la mente. Quando gli parlo mi sembra che ragioni. Ma poi gli parlo di nuovo e mi sembra che dica il contrario di quello che mi ha detto prima. E poi un'altra cosa ancora. E così via...

Una serie di affermazioni, più o meno estrapolate con estrema cautela (parole non troppo dure, possibilmente di comprensione, sicuramente pazienti, per non urtarne la sensibilità e vederlo rintanarsi in se stesso come quelle piante ipersensibili che come le tocchi si chiudono), che a volte paiono non avere una logica.

Ma se glielo fai notare, se gli dici che in un certo passaggio si è decisamente contraddetto... scatta immediatamente il "vedi, è inutile che te ne parli, non capisci: dovrei tenermi queste cose per me".

E allora arranco, torno sui miei passi, mi rimangio tutto quello che ho appena detto, perché la più grande paura e che non mi parli più.

Ma faccio bene? Dovrei fargli notare quanto è contorto? Dovrei anche io esordire con la classica frase genitoriale "Dammi retta che ci sono già passata"?

Non lo so. Tanto anche in questo caso la risposta sarebbe sempre la stessa "seeeee, ai tuoi tempi era un'altra cosa".

E allora alzo le mani. 

Diceva qualcuno che il genitore "come fa, sbaglia". Quindi...

Quindi attendo con trepidazione la prossima chemio.

Roba da pazzi.

venerdì 17 marzo 2023

Vivo per curarmi.

Non volevo scrivere ma poi ho pensato che era meglio farlo per tirar fuori tutto il malessere che mi serpeggia dentro da giorni.

Sono un'ingrata e mi vergogno anche soltanto a pensarlo ma è inutile far finta di nulla.

Le buone notizie che da qualche giorno ho avuto con riguardo all'andamento della mia malattia e, quindi, dell'efficacia della chemio, mi hanno spaventata e ... sì. Assurdo dirlo. Demoralizzata.

Io non ne posso più.

Io non voglio che 'sta maledetta roba si allunghi e duri tutta la vita. Io non voglio annacquare questa mia situazione e vivere in questo modo (sempre all'erta, sempre a fare esami e visite, sempre in terapia, sempre con gli effetti collaterali che diventano sempre più fastidiosi, sempre a non fare nulla di costruttivo ma a tirare avanti...) a lungo.

Io sono stufa.

Mi sento inutile.

Mi sento un essere che vive per curarsi. Non il contrario.

Ma che senso ha?

Le "buone" notizie mi hanno fatto piacere unicamente per i miei genitori e per i miei figli (anche se per questi ultimi a volte mi chiedo sino a quanto? Forse crescerebbero meglio senza una mamma come me, ansiosa e ingombrante).

E' come con una medicina amara. Preferisco una cucchiaiata amara tutta in una volta che diluirla un bicchiere colmo d'acqua per sentirla meno amara. Tanto fa sempre schifo ma almeno te la levi di mezzo più in fretta.

Sono stanca di essere così.

Sono stanca.

Le mie giornate sono inutili. Io sono un soggetto inutile. 

La mia vita ultimamente è un susseguirsi di giornate per trovare la medicina giusta per arrivare al giorno dopo. Ma che senso ha?

A parte l'amore dei miei genitori e il dolore che darei loro se non ci fossi più, mi chiedo a che servo?

Non sto scherzando. E non mi sto compatendo. Sto osservando la mia vita in modo oggettivo.

Non lavoro "davvero". Gestisco degli appartamenti per uso turistico (ullalà) e chiunque potrebbe sostituirsi a me senza alcuna conseguenza.

Non mi alzo la mattina per aiutare il prossimo o per fare qualcosa di utile al mondo... ma unicamente per portare fuori il cane, rassettare casa e per fare la spesa. Punto.

E a capo. 

Tutti i giorni così. E non sarei in grado di fare di più perché sono una lattina vuota. 

Le mie settimane sono scandite dagli esami, dalle medicazioni, dalle terapie...

Al tempo stesso La sensazione che mi da  il pensiero di stare in mezzo alla gente mi fa temere di essere sociopatica.

Mi fa paura stare con gli altri; mi fa paura mangiare (con gli altri soprattutto ma in genere per stare serena dovrei digiunare); mi fa paura condividere a lungo del tempo con altri; mi stanca stare al telefono e parlare. Vorrei rinchiudermi dentro un bozzolo e aspettare che finisca tutto.

Uno strappo e zac. Basta. Fine. Come facevo per tirar via i destini da latte quando ero piccola. Li legavo con un filo e poi chiedevo a qualcuno di tirarlo improvvisamente. Rapido. 

Questo è uno stillicidio.

Sto bestemmiando, lo so, ma spesso ho sperato che questa fosse la volta buona per "andarmene" in poco tempo. Ho paura di soffrire. Ma se fosse per un breve tempo...

Non ne ho voglia.

Non ho più entusiasmo vero per le cose. Sto bene soltanto quando stramazzo al suolo dopo un allenamento. E' l'unico momento in cui sono davvero felice e, udite udite, soddisfatta di me. Ma dura quel che dura.

Non sono depressa, me ne accorgerei. Sono solo assuefatta al nulla che è la mia vita. 

Forse davvero "il lavoro nobilita l'uomo": ed io mi sento una spettatrice di un film interpretat
o da altri. 

Non m i sento un esempio per i miei figli. Quando mi chiedono che lavoro faccio vorrei sotterrarmi.

Mi sento sempre una bambina piccola e inutile. Che si aggrappa alla sua malattia per giustificare una vita vuota e senza senso. Ed è per questo che vorrei che potesse terminare velocemente. Senza dolore ma in fretta.

Che senso ha continuare a vivere per curarsi?

 


domenica 12 febbraio 2023

Il pozzo

È dalle h.13.25 che mangio. Sono le 15.50. Quasi due ore mezza. Quasi senza soluzione di continuità.

Tutto è iniziato perché ho iniziato il pranzo con un resto di un piatto di pasta avanzato da ieri. 

Non dovevo e lo sapevo. 

Non riuscire a quantificare quanto e cosa esattamente ci fosse ancora dentro il piatto (quanta pasta, quante zucchine, quanta Philadelphia, quanto formaggio, quanto olio…) mi dava già la sensazione che stavo perdendo il controllo. 

Più precisamente: che lo avevo già perso.

Poi ho continuato. Senza contare più nulla. Senza gustare più nulla. Così come si buttano dentro ad un pozzo senza fondo una serie di oggetti dei quali si conosce vagamente origine, utilità, forma…



E velocemente. Perché poi se mi fermo realizzo tutto ciò che ho trangugiato e arrivano il senso di gonfiore e di pesantezza.

E adesso?

Adesso non mi resta che la bocca impastata e un senso enorme di sconfitta e di stupidità.


giovedì 2 febbraio 2023

Fragilità


Ma ad una persona normale può "salire" l'ansia perché ha appena firmato un contratto di acquisto di tre condizionatori?

Può una persona adulta e sana di mente, con questo stato d'animo causato da un evento simile (...), andare dalla figlia di sedici anni e chiederle se le vuole sempre bene e necessitare di un abbraccio come di uno che in apnea ha bisogno di ossigeno?

boh.

Secondo me non sono proprio una persona equilibrata. Secondo me c'è un click che è andato storto. O forse un pezzetto mancante.

Quando l'abbia perso 'sto pezzetto dell'ingranaggio non lo so ma che manchi o che non abbia fatto il giusto scatto ne sono certa.

Perché questa cosa qui mi capita anche mentre faccio la spesa in un supermercato o quando sono in un bar a prendere un caffè - tutte situazioni estremamente pericolose e ansiogene... come è ben noto ai più -: mi viene il bisogno di un abbraccio forte o di qualcuno che mi dica "ti voglio bene, Fra".

Sento come un vuoto, tipo uno scompenso d'aria, come una di quelle bollicine che si creano quando cerchi di mettere la pellicola proteggi schermo allo smartphone. 

Tante piccole palline che vanno riempite subito. 

Io però ne sento una, grande. Tra lo stomaco e il cuore. Solo un abbraccio mi calma.

Due braccia che mi avvolgono.

Una volta in un episodio di Grey's (o era E.R.?) avevo visto qualcosa di analogo in una dottoressa cardiochirurgo molto rigida e severa che ogni tanto aveva degli scleri pazzeschi che soltanto un abbraccio stretto poteva calmare. 

Effettivamente se googolo "perché abbiamo bisogno di abbracci?" trovo che "l'abbraccio stimola la produzione di ossitocina nell'ipotalamo dando una sensazione di benessere interiore e al contempo aiuta il cervello a ridurre il livello di cortisone (l'ormone dello stress)" (Focus.it)

Questo spiegherebbe tante cose...

Altro che droghe.

Un bella dose massiccia di abbracci.

Magari ecco, le situazioni in cui ne sento il bisogno dovrebbero essere un pò meno pubbliche e improvvise perché credo che qualcuno abbia pensato almeno una volta che ero parecchio strana.

Per fortuna ancora non sono arrivata a chiederli al primo che mi capita a tiro ma unicamente alla persona con cui mi accompagno e con la quale sono in una certa confidenza. Ma quando è capitato che ero sola ho sofferto un po'. Perché si crea proprio una specie di sincope nel respiro.

Strana, sì. Innegabilmente strana.

E pazienza.



 



giovedì 26 gennaio 2023

AAA


 AAA.

Ansia a manetta. 

E' da giorni che sono su un'altalena emotiva. Più precisamente sulle montagne russe. Ed oggi ho l'ansia che neppure Pindaro.

Le cause? Inutile andarle a cercare... sono mille e nessuna. E' questa vita che è davvero un pot pourri di casini ed io la ciotola che li contiene.

Da ultimo l'aver mangiato della pasta frolla mentre preparavo la crostata. 

Bah.

L'altra sera mentre smanettavo sul cellulare anziché i soliti video di Shiba, gatti  e bambini buffi, mi sono saltati fuori psichiatri, pedagoghi, psicologhi. Non so Google che cosa mi abbia sentito dire o con chi mi abbia sentito parlare... fatto sta che ha pensato bene di propormi questi contributi. 

Grazie; ne avrei fatto a meno.

Tuttavia uno mi ha fatto riflettere: parlava di un uomo che per tutta la propria adolescenza si era finto malato (non sempre ma periodicamente) perché aveva sperimentato che era l'unica condizione in cui poteva essere fallibile. In quei momenti poteva sbagliare. Poteva non essere più perfetto.

Ci ho pensato su. E se fosse questo il motivo per cui io per tutta la vita ho lottato con i DCA?

Me li sono creati io, alla fine. Mica è un problema che si prende come il raffreddore o come un...tumore.

Mi era già capitato di soffermarmi sulla genesi di questo disturbo tanti anni fa, in uno degli innumerevoli tentativi di risolverlo ed era venuto fuori dapprima che poteva essere un modo per darsi una identità "certa e definita" (io sono malata) in un momento della mia vita in cui non sapevo più chi ero, essendo appena uscita da anni di malattia (vera) capitatami in una fase della vita di una persona (l'adolescenza) in cui si inizia a costruire la propria identità e la propria persona/personalità. 

In un secondo momento, mi era parso che la malattia poteva essere il modo più semplice, la strada più breve (anche se dolorosa) per essere amati. Quando si è malati tutti ti vogliono bene: sei vulnerabile, sei un po' perdente, non sei certamente un avversario temibile, fai un po' compassione ed è più semplice volere bene a chi è più in basso di te. A chi sta peggio. Più difficile è amare chi ha successo e vive a vele spiegate.

E così, dopo aver sperimentato questo sentimento da parte degli altri nei miei confronti durante la mia "prima vera" malattia, una volta che questa era terminata mi ero ritrovata senza giustificazioni. Senza più un motivo per essere amata. E mi sono creata un buon motivo: il DCA.

Oggi però inizio a pensare che possa un altro, il motivo.

E questo sarebbe anche la ragione per cui io affronto questa "nuova vera" malattia quasi come una benedizione.

Finalmente, grazie a lei, ho potuto lasciare per sempre il mio odiatissimo lavoro senza essere colpevolizzata. Senza essere giudicata negativamente ma anzi giustificata e compresa. 

Grazie a lei non ho più quel fardello di responsabilità e ansia che mi dava fare l'avvocato.

Grazie a lei posso essere stanca. Grazie a lei posso dire di no.

Proprio come quel ragazzo: se sono malata posso essere fallibile. Imperfetta.

Posso essere me stessa.


Forse è questa la chiave.

O forse lo sono tutte e tre perché nulla è mai semplice. Tantomeno ciò che riguarda la psiche.

Dicono che la consapevolezza sia il primo passo verso la guarigione.

Sarà. 

Intanto l'ansia resta. Per un pezzo di pane. Per un giro d'olio in più. Per un pezzo di pasta frolla mangiato velocemente e di nascosto (da chi? da me stessa) ...

Ma anche questa sono io. E prima o poi arriverà il momento in cui imparerò ad accettarmi.

(Nel senso di accettazione, eh! ... non si sà mai).



 

martedì 3 gennaio 2023

Sovrastrutture inutili

Oggi è il 3 gennaio. Già da tre giorni siamo nel 2023 ma me ne sto rendendo conto soltanto adesso. Sono stati tre giorni un po' vissuti in apnea ma sto risalendo... vedo la luce abbagliante del sole che attraversa la superficie dell'acqua ondulando e danzando al ritmo leggero della brezza. Sono ancora un po' sotto... ma sto risalendo. 

La stanchezza molesta dei giorni scorsi è passata ed adesso sono qui seduta alla mia piccola scrivania, la musica deliziosa di Bill Evans (meraviglioso jazzista che ho avuto la fortuna di conoscere attraverso il romanzo di Murakami che prende il titolo da un brano dei Beatles "Norwegian Wood") e la finestra semiaperta su una serata stellata e dall'aria frizzante che ben si addice all'inverno. Iyashi è fuori sul balconcino che osserva i passanti nell'attesa della sua uscita serale e come sfondo... il profumo di una semplicissima torta margherita con gocce di cioccolato bianco che ho informato mezz'ora fa. C'è anche la Luna.


"life could be so simple" canta Anthony Lazaro.

Ed invece la complichiamo con ripicche e discorsi che si trascinano. Con richiami al passato che non hanno nulla a che vedere col presente che di complicazioni ne ha già di sue. 

Stupidità umana, la chiamo io.

Ma siamo destinati a rovinarci la vita con le nostre mani se prima non ci pensa lei, la vita intendo.

Vorrei essere un bollicina che fluttua nell'aria, leggera, quasi priva di peso e di corporeità. Libera di volteggiare senza disturbare nessuno e senza essere disturbata. Osservare, annusare, ascoltare.

Anche NON ascoltare. 

Librarmi senza pensieri attraverso un mondo che, io lo intuisco, può essere davvero meraviglioso se soltanto riuscissimo a farci scivolare da dosso la negatività.

Basta una tisana calda.

Della buona musica.

Un profumo confortante. Per ritrovare quella serenità che è tipica dell'infanzia e che è il frutto di una quasi totale assenza di sovrastrutture che sono quelle che ci impediscono di vedere le cose come esattamente sono. 

Bisogna lavorarci su.