Ho concluso il check di luglio: esami vari, aghi aspirati, MOC, RM, TAC, ECO...
Tutto bene.
Cacchio.
Sì, sì, non ho scritto male. Ho scritto proprio "TUTTO BENE: CACCHIO".
Ho paura di stare bene. Ho paura di guarire. Lo so che in realtà non guarirò mai... (perché dal IV stadio, dalle metastasi, non si guarisce) ma anche il pensiero, la prospettiva di "stare meglio" a lungo, senza la copertina di Linus della mia malattia, mi crea un'ansia che, assurdo da dirsi, mi ha scombussolata per tutta la settimana appena trascorsa.
Come reagisco io all'ansia: mangio. E' una settimana che ho una fame quasi atavica e butto giù tutto ciò che mi sono proibita da un po' di tempo a questa parte, nel tentativo di riappacificarmi almeno con il mio aspetto fisico (visto che con quello mentale proprio non mi riesce).
Molti anni fa una ragazza - che adesso non c'è più- mi disse che io "continuavo a nascondermi dietro la mia malattia". Ci rimasi malissimo. Ancora mi brucia quella frase. Perché era vera.
Al tempo, ovviamente, si riferiva al mio primo tumore. Il linfoma del 1990 che ha fatto da primo spartiacque nella mia vita. Avevo 16 anni da compiere Ma si può dire che non li abbia mai compiuti veramente.
Sono passata dai 15 ai 25 anni (anno della mia Laurea) tutto in colpo. La mia adolescenza è stata strana. Compressa. A singhiozzi. Atipica.
La mia vita si scandisce come le ere geologiche.
La nascita nel 1974. Il linfoma N.H. nel 1990. La laurea nel 1999. L'incontro con mio marito nel 2001. Il secondo tumore nel 2015.
La nascita dei miei figli, seppure fondamentale (direi essenziale) nella mia esistenza, non ha segnato una tappa: loro si sono inseriti nell'era "matrimonio" che inizia da prima della celebrazione vera e propria. Inizia con l'incontro con mio marito. Ho avuto 27 anni per tanto tempo. Sino al 2015, anno della diagnosi del tumore al seno (in cui in realtà ne avevo 41 appena compiuti).
Adesso mi trovo ancora in quella era. Il tumore al seno è stato il mio secondo grande pitstop. Da lì, a cascata sino ad oggi, si sono succedute scelte importanti come quella di lasciare la professione da avvocato e intraprendere quella attuale che, inizialmente, esercitavo in modo completo ma che, dopo le metastasi ossee, ho dovuto in buona parte (la parte fisica) delegare per evitare la minaccia (tutt'altro che velata) da parte dei medici di ritrovarmi con il busto vita natural durante.
Ora, una che ha vissuto così -cioè che ha scandito la propria vita con la malattia-, che ha modellato la priora esistenza sulla malattia, adeguandosi ad essa, adagiandosi su di essa, riparandosi con essa, proteggendosi con essa, nascondendosi dietro di essa... come può non esser terrorizzata all'idea di non stare più male?
Di non poter più dire "non posso perché devo fare la terapia, non posso perché sono stanca, non posso perché sto male..."? Di dover prendere la propria vita in mano, uscire. Essere come gli altri. Lavorare come gli altri. Stancarsi come gli altri. Sbagliare come gli altri. Mangiare come gli altri. Arrangiarsi come gli altri senza sempre qualcuno che ti tende la mano perché sei malata.
VIVERE come gli altri?
Non ho più scuse. Dovrei uscire dal mio guscio. Dalla campana di vetro in cui vivo dal 1990.
Ecco, questo mi fa tanta paura.

Se a questo si aggiunge che non ho voglia di "vivere" nel vero senso della parola... ne viene fuori una sensazione di "VICOLO CIECO" che mi scatena attacchi di fame incontenibili.
Se ci rifletto, probabilmente io non ho desiderio di vivere perché penso che la vita sia questo. Una serie di doveri e di obblighi da cui è impossibile scappare. Una serie di "sì" ai quali non potrei più sottrarmi perché non potrei più accampare scuse, vere o presunte.
Molto meglio essere malati.
Soprattutto malati come fortunatamente sono sempre stata io: che sì, ho sofferto, ma la sofferenza fisica si affronta. Si stringono i denti. Dura un po' ma poi passa (almeno la mia... perché ci sono persone il cui dolore fisico non passa così velocemente).
Mentre una vita di "sì" non voluti, di preoccupazioni lavorative, di fallimenti, di delusioni nelle relazioni personali, di litigi con tutti gli strascichi che immagino essi comportino, di sudore e di fatica, di difficoltà quotidiane... tutto questo non passa velocemente stringendo i denti. Non si attenua impugnando forte il lembo di un lenzuolo in un letto di ospedale o stritolando la mano del medico che ti tiene ferma mentre ti prelevano il midollo o ingoiando in silenzio le lacrime mentre ci si vede per la prima volta in uno specchio dopo la mastectomia. Questi "dolori"durano un certo tempo che, poi, termina. Li gestisci tu. Sei tu che dici "basta". Sei tu che sai quanto stai soffrendo e sei tu che puoi modulare la tua reazione.
Di vivere non si termina sino a che la mela non cade dall'albero definitivamente.
Ed io non sono pronta.